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PSICOFARMACI E PREGIUDIZI - FURIO RAVERA - 22 AGOSTO 2017

Psicofarmaci e pregiudizi


Un ostacolo frequente nel trattamento di disturbi psichici è rappresentato dal pregiudizio sui farmaci. Un certo numero di pazienti nonostante i benefici evidenti ottenuti a seguito di una terapia farmacologica, diventano "impazienti" circa il desiderio di ridurre e sospendere le terapie. Alcuni temono che il farmaco "intossichi il fegato" altri dichiarano che "non vogliono diventare dipendenti" da una medicina, altri ancora pensano che sospendendo i farmaci si sentono "più normali", guariti, mentre il farmaco ricorda a loro di essere in uno stato di malattia (in molti casi sono i genitori che insistono per la riduzione e rapida sospensione dei farmaci, spinti dal desiderio di mettersi alle spalle l'angosciante esperienza di avere un figlio malato, senza accorgersi che stanno sabotando una terapia con il rischio di riattivare proprio ciò che li angoscia. È comprensibile, vanno aiutati con empatia e costanza). Altri dicono che vogliono curarsi con prodotti "naturali"e non vogliono aver a che fare con la "chimica". Negano o non sanno che il cervello è una potentissima centrale elettrochimica e che la chimica è dovunque su questa terra, anche nei prodotti così detti naturali dei quali non basta non conoscere la composizione chimica per dichiararli non chimici. Anche la botanica è un immenso sistema chimico e vi sono micidiali prodotti chimici provenienti dalla natura, la digitale, l'oppio, il botulino, l'alcol ed altri più innocui come lo zucchero, il sale, il pepe, il peperoncino e così via, tutti con la loro bella struttura chimica. Ci sono varie conseguenze a questo genere di pregiudizi. La prima è il rischio che il paziente si sottragga, in forza di queste credenze, a cure corrette, opponendosi all'assunzione di farmaci. La seconda, non meno grave, è che il paziente assuma i farmaci in modo discontinuo e/o li sospenda precocemente. Un 'altra conseguenza proviene dal fatto che un cattivo impiego dei farmaci ne riduce l'efficacia, alimentando idee di inguaribilitá nei pazienti che dicono: "li ho presi i farmaci, ma non sono serviti... non guarirò mai...".


Facciamo un pò di educazione sanitaria. Corso di base per essere pazienti consapevoli. In primo luogo occorre considerare che alcuni disturbi psichiatrici sono divenuti curabili dopo la scoperta di farmaci specifici, parlo degli antidepressivi per la depressione, gli antipsicotici per schizofrenia, il litio (non è un farmaco bensì un sale) per il disturbo bipolare, gli stabilizzatori dell'umore. Per questo è sufficiente leggere un pò di storia della psichiatria ed informarsi sui cambiamenti della qualità di vita dei pazienti dopo la scoperta di farmaci psicotropi. La psichiatria era impotente di fronte alla maggioranza dei disturbi e questo spiega I'esistenza dei tanti manicomi prima dell'avvento della legge Basaglia (1978), frutto dei cambiamenti sociopolitici dalla fine degli anni sessanta in poi, ma sarebbe una falsificazione grave negare che la chiusura dei manicomi non sia stata favorita anche dall'avvento dei farmaci, pur con tutti i difetti che possono avere (in termini di effetti collaterali) insieme ai pregi, ma questo accade per tutti gli strumenti di cui l'uomo si trova a disporre. C'è abuso di farmaci, come c'è abuso di psicoterapia,

quest'ultima gravata anche dal rischio di una competenza non sempre verificabile. Ci sono interessi economici dietro ai farmaci? Non ce ne sono forse anche nelle psicoterapie? Dico questo per affermare che se si vuole impiegare una politica del sospetto relativamente ad una cura c'è sempre il modo di trovarla. Il gravissimo errore è quello di mettere in contrapposizione farmaci e psicoterapie, mentre tali presidi terapeutici devono far parte di un'ampia strategia terapeutica costruita per il paziente. Non sono in competizione ed è pericoloso farlo. Peggio ancora è fare dei farmaci o delle psicoterapie un oggetto da valutare da una prospettiva politico - ideologica. La politica si deve occupare di come mettere a disposizione di tutti le cure più efficaci pretendendo serie valutazioni empiriche. L'unico strumento di valutazione è il metodo scientifico, la validazione empirica dei mezzi che si intende impiegare. Negli ultimi decenni anche la psicoterapia, nelle sue varie declinazioni, è stata sottoposta ad una valutazione empirica in numerosi studi al fine di misurarne l'efficacia. Analogo discorso per i farmaci, vale la ricerca, ma anche il riscontro di molti seri medici ed operatori che si pongono il problema di valutarne l'efficacia, caso per caso. Si prenda il caso dei Disturbi di Personalità, il più noto il Disturbo Borderline. Per questa affezione i farmaci non sono molto efficaci, non ci si può aspettare una guarigione impiegando i soli farmaci. Essi sono complementi per altre forme di intervento di tipo psicoterapeutico, per rendere il paziente più stabile per affrontare la fatica di una psicoterapia (una psicoterapia ben condotta può affaticare in certe fasi il paziente a meno che il terapeuta eviti inconsciamente di trattare certi argomenti per " tenere buono il paziente"). La farmacoterapia, può essere impiegata in questi casi per ridurre (e non risolvere completamente) l'ansia, per portarla ad un livello all'altezza delle risorse del paziente, può essere utile per contenere le regressioni psicotiche di tipo persecutorio frequenti in questo disturbo. Gli antidepressivi possono aiutare per ridurre l'angoscia e l 'aggressività (SSRI). Ma la risoluzione del Disturbo passa attraverso la modifica dell'alterazione del sistema difensivo del paziente, basato fondamentalmente sulla scissione con le conseguenze drammatiche sulle relazioni ed il comportamento. Qui si rendono necessarie strategie psicoterapeutiche molto specifiche, talvolta combinate (Psicoterapia focalizzata sul transfert e EMDR per esempio, per risolvere componenti traumatiche molto attive in relazione alle alterazioni delle relazioni oggettuali del paziente). Prendiamo un altro pregiudizio: "non voglio dipendere dai farmaci!..." e dalla malattia è meglio? Qui si fa di tutta l'erba un fascio nel senso di trattare i farmaci come sostanze stupefacenti. Nelle sostanze stupefacenti il fenomeno della dipendenza è associato al fenomeno dell'assuefazione che rende tragica la dipendenza per necessità sempre più elevate del composto chimico, da cui si dipende, che intanto diventa sempre meno efficace. Ciò non accade con i farmaci per i quali, una volta superata la fase acuta si va alla ricerca, attraverso una riduzione controllata, della dose minima efficace per mantenerne l'effetto fino a che l'osservazione costante del paziente non segnala altri consolidamenti che giustifichino una prudente sospensione del farmaco, se si tratta del primo episodio. Se ci si trova di fronte ad una ricaduta è bene considerare con il paziente il mantenimento di una dose minima efficace. Vi sono molte malattie per cui si deve "dipendere da un farmaco", si pensi al diabete, all'ipertensione, alle aritmie cardiache, all'epilessia, al lupus e così via. Sulla scorta di una consapevolezza di malattia e dei timori che questa suscita vi è in genere più collaborazione nell'assunzione delle terapie, anche se questa attitudine rimane sempre un problema per tutta la medicina. In psichiatria si deve però riconoscere una resistenza più sottile sulla quale è necessario rassicurare il paziente. Si tratta della credenza che i farmaci possano cambiare la personalità, alcuni dicono "ho paura che mi cambi la testa, di diventare un'altra persona....".

Una persona può, in una fase iniziale essere disturbata da un senso di sedazione, indesiderata anche dagli psichiatri ben formati perché riduce la capacità di informare nel paziente, può ridurre le idee persecutorie, e quindi far sentire che qualcosa sta cambiando nella loro mente, può evitare pericolose oscillazioni del tono dell' umore ed è comprensibile come gli euforici preferiscano rimanere in uno stato di eccitazione che talvolta interpretano come la loro "vera" personalità, ma non vi è farmaco ben impiegato che possa cambiare l'essenza della persona. È altresì vero che ad un livello più profondo alcuni hanno un legame con la propria malattia che è entrata a far parte della loro personalità ovvero del modo con cui una persona si rappresenta la propria identità. Questo concetto mi sembra ben espresso da Eckhart Tolle nel suo libro "Il potere di adesso - Guida all'illuminazione spirituale" (Edizioni My Life 2013): "Ciò non significa negare che potresti incontrare una forte resistenza interiore nel processo che ti porta a recidere l'identificazione con il tuo dolore. Ciò avviene soprattutto se hai vissuto per gran parte della tua esistenza identificandoti strettamente con il tuo corpo di dolore emotivo e se hai investito in quest'ultimo la totalità, o una porzione, della tua idea di identità. Ciò significa che hai costruito un io infelice con il tuo corpo di dolore e ritieni che questa finzione creata dalla mente sia la tua identità. In questo caso, la paura inconsapevole di perdere la tua identità creerà una forte resistenza al processo di cui stiamo parlando. In altre parole, preferirai soffrire ed essere il corpo di dolore, piuttosto che compiere un salto nel buio e rischiare di perdere il tuo io infelice ma familiare." E poi ci sono le paure di intossicazione. Intossicazione del fegato. Nella mia esperienza è "più intossicante" il disagio psichico. La mancanza di un buon equilibrio nella gestione di sè, non favorisce un buono stato di salute. Si pensi a come l'ansia possa incrementare il consumo di alcol, di sigarette o di cibo con evidenti conseguenze negative. Si pensi all'inappetenza dei depressi che talora giunge a determinare alterazioni cardiache da denutrizione, si pensi alle somatizzazioni gastriche ed intestinali. Si pensi alle obesità psicogene. Gli effetti collaterali dei farmaci sono ben noti ed è dovere del medico sorvegliarli e contenerli, quindi mentre si cura la psiche con i farmaci è necessario, da medici, sorvegliare il corpo. Non va mai dimenticato ed il paziente deve essere informato su tutto questo.

Dottor Furio Ravera